Ilaria Alpi
Ilaria Alpi (Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994) è stata una giornalista e fotoreporter italiana del TG3, assassinata a Mogadiscio insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin. Ilaria Alpi giunse per la prima volta in Somalia nel dicembre 1992 per seguire, come inviata del TG3, la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Alla missione prese parte anche l'Italia, superando in tal modo le riserve dell'inviato speciale per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni ottanta. Le inchieste della giornalista si sarebbero poi soffermate su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbe visto, tra l'altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di alte istituzioni italiane: Ilaria Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate coi gruppi politici locali. Nel novembre precedente l'assassinio della giornalista era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi in prossimità dell'ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall'hotel Hamana, nel quartiere Shibis. La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni ottanta. La giornalista salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo. Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all'hotel Sahafi, vicino all'aeroporto, e poi all'hotel Hamana, dinanzi al quale avvenne il duplice delitto. Sulla scena del crimine arrivarono subito dopo gli unici altri due giornalisti italiani presenti a Mogadiscio, Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un freelance che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall'auto in cui erano stati uccisi a quella di un imprenditore italiano con cui successivamente vennero portati al Porto vecchio. Una troupe della Svizzera italiana si trovava invece all'Hotel Sahafi (dall'altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti. Il 18 luglio 1998 il sostituto procuratore di Roma Franco Ionta formulò la richiesta di rinvio a giudizio a carico del cittadino somalo Omar Hashi Hassan, accusato di concorso in omicidio volontario aggravato: secondo l'accusa, egli sarebbe stato alla guida della Land Rover con a bordo i componenti del commando che uccise i due giornalisti italiani. Hassan era giunto in Italia l'11 gennaio per essere ascoltato dalla Commissione Gallo in merito alle violenze asseritamente inferte da parte di alcuni militari italiani a diversi civili somali nel corso della Missione Ibis coordinata dall'ONU (UNOSOM I e II); arrivato in Italia, un altro cittadino somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, anch'egli convocato dalla procura di Roma per rendere dichiarazioni, riconobbe lo stesso Hassan come uno degli autori dell'omicidio. A seguito delle successive indagini Hassan fu rinviato a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare Alberto Macchia. La prima udienza dibattimentale si tenne il 18 gennaio 1999 presso la Corte d'Assise di Roma; il collegio era presieduto da Gianvittore Fabbri. Nel corso del processo, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l'assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il 10 maggio, il presidente del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, Franco Frattini, intervenendo ad una trasmissione televisiva, rilevò come la questione dei traffici illeciti come possibile movente del duplice omicidio fosse "un elemento importante che sta emergendo". Ad accusare Hassan comparve tuttavia un altro testimone chiave: Ali Abdi, l'autista che aveva accompagnato Alpi e Hrovatin dall'aeroporto di Mogadiscio all'hotel Hamana, in prossimità del quale avvenne il brutale delitto. La difesa, da parte sua, chiamò a testimoniare due cittadini somali, i quali asserirono che il giorno dell'agguato l'imputato si trovava presso Haji Ali, a duecento chilometri da Mogadiscio, per visitare un familiare gravemente malato. La perizia della Polizia Scientifica, nel ricostruire la dinamica dell'azione criminale, stabilì che i colpi sparati dai Kalašnikov erano indirizzati alle vittime, poiché sparati a bruciapelo, a distanza ravvicinata; secondo una successiva perizia balistica, invece, i colpi sarebbero stati sparati da lontano, senza che l'omicida potesse avere consapevolezza dell'identità delle vittime. Il 20 luglio 1999 Hassan fu assolto per non aver commesso il fatto: secondo il collegio, Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi "come capro espiatorio" per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Hassan, tuttavia, non vene immediatamente scarcerato poiché, nel frattempo, si era aperto a suo carico un processo per violenza carnale, reato asseritamente commesso a danno di una sua connazionale in Somalia. Da tale capo d'accusa sarà assolto il 26 luglio 1999. Rispetto al duplice omicidio, invece, il processo d'appello ebbe inizio il 24 ottobre 2000, presso la Corte d'assise d'appello di Roma; il collegio era presieduto da Franco Plotino. Il secondo grado di giudizio ribaltò le conclusioni del collegio di prime cure: secondo i giudici dell'impugnazione, infatti, sia Gelle che Ali Abdi "sono da considerare attendibili ed entrambi hanno visto l'imputato a bordo della Land Rover prima della sparatoria"; Hassan, ritenuto responsabile del duplice omicidio volontario, con l'aggravante della premeditazione, fu condannato all'ergastolo. Venne inoltre disposta la misura della custodia cautelare in carcere, motivata sulla base del pericolo di fuga. Nel frattempo, tuttavia, Gelle, figura chiave del procedimento a carico di Hassan, si era reso irreperibile, cosicché nel processo poterono essere utilizzate le dichiarazioni che egli aveva rilasciato in sede di indagini preliminari: sul presupposto che tali dichiarazioni fossero divenute irripetibili, esse poterono far ingresso tra le fonti di prova utilizzabili dal giudice, pur in difetto di qualsiasi contraddittorio con l'accusato. Inoltre, quelle stesse dichiarazioni che, secondo il giudice di primo grado, non erano comunque in grado di provare la colpevolezza di Hassan, furono invece ritenute sufficienti dal giudice d'appello. Quanto poi ad Ali Abdi, questi tornò in Somalia e fu ucciso nel giro di un breve periodo di tempo. La sentenza fu confermata dalla Corte di cassazione, salvo nella parte in cui riconosceva l'aggravante della premeditazione; la Cassazione dispone dunque il rinvio al giudice di merito per la nuova commisurazione della pena. Il processo d'appello bis si aprì il 10 maggio 2002 davanti alla corte d'Assise d'Appello di Roma, presieduta da Enzo Rivellese: il collegio concluse per la pena di 26 anni di reclusione, senza la premeditazione e riconoscendo le attenuanti generiche come equivalenti all'aggravante del numero dei partecipanti all'agguato (essendo 7 i componenti dell'agguato). Il 19 ottobre del 2016 la svolta. Secondo il sostituto procuratore generale analizzando le prove emerse nei confronti di Omar Hassan "ne deriva un quadro bianco senza immagini, senza niente". "E quindi - ha detto Razzi - la mia conclusione non può che essere una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto". Il magistrato ha parlato di "inattendibilità" del teste Gelle. "Non esiste" ha sottolineato. Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. Il 3 luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l'inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l'identità dei killer e il movente del duplice omicidio Il 23 febbraio 2006 un'apposita Commissione parlamentare d'inchiesta, dopo due anni, concluse i suoi lavori con tre relazioni contrapposte, una approvata a maggioranza e due di minoranza. Durante le audizioni vennero sentiti numerosi testi a vario titolo coinvolti o a conoscenza delle dinamiche e dei fatti. Tra essi Mario Scialoja[8], ex ambasciatore italiano, che escluse o ritenne minima la possibilità di matrice fondamentalista islamica, e vari appartenenti ai servizi informativi SISMI e SISDE che invece contemplarono una forte possibilità di questa matrice. La commissione, tuttavia, non avrebbe condotto i necessari approfondimenti per escludere che l'omicidio potesse essere stato commesso per le informazioni raccolte dalla Alpi sui traffici di armi e di rifiuti tossici. La commissione, sempre nella relazione di maggioranza, cercò di riscontrare l'ipotesi che l'omicidio fosse avvenuto "nell'ambito di un tentativo di rapina o di sequestro di persona conclusosi solo fortuitamente con la morte delle vittime, e questa tesi veniva accreditata anche in base ad un rapporto riservato di UNOSOM del 3 aprile 1994, da cui citava "è probabile che i banditi intendessero non appropriarsi del veicolo, ma rapinare due cittadini occidentali...". Contestualmente veniva citato come fonte il somalo Ahmed Ali Rage, detto "Gelle", che accusava un altro somalo, Hashi Omar Hassan, di avergli raccontato che l'intenzione iniziale fosse di rapire i due giornalisti e che la situazione fosse poi degenerata nella sparatoria; Hassan venne arrestato anche sulla base di queste dichiarazioni quando arrivò in Italia per testimoniare ad un altro processo, quello sulle presunte violenze a carico di soldati del contingente italiano appartenenti alla brigata paracadutisti "Folgore". Altro movente che venne preso in considerazione fu il rancore verso gli italiani a causa di un arresto subito dallo stesso Hassan da parte proprio di un contingente della Folgore intervenuto a separare una rissa, durante il cui intervento Hassan colpì un ufficiale italiano. Ancora ad avvalorare questa ipotesi, nella relazione lunga 687 pagine, Valentino Casamenti dichiara che "i banditi liberati (dopo l'arresto da parte italiana) versavano in gravi condizioni economiche. Dovevano ripagare i loro avvocati ed avevano comunque urgente bisogno di soldi. Avevano deciso allora di sequestrare degli italiani per vendicarsi del trattamento subito dalla Folgore...", anche se la giornalista Giuliana Sgrena, amica della Alpi ed arrivata a Mogadiscio subito dopo l'uccisione, nella sua audizione il 20 luglio 2005 dichiarò che "si è detto che potesse essere un sequestro, ma allora sembrava abbastanza inverosimile. La stessa Sgrena fu ascoltata in merito all'ipotesi di una "ritorsione di natura economica, ovvero vendetta anti italiana o anti occidentale" insieme al giornalista di Repubblica Vladimiro Odinzoff, che intervistò un suo contatto somalo, un morian che aveva a suo dire partecipato alla battaglia del Pastificio e che raccontò di una banda di quindici criminali somali arrestati da un gruppo misto del Col Moschin e della polizia somala, brutalmente picchiati all'arresto e dalla polizia somala anche in carcere tanto che uno avrebbe perso l'uso delle gambe, da cui la ragione della vendetta; questa fonte, sebbene ritenuta credibile da Odinzoff e dalla Sgrena, tanto che il primo ne ricavò un articolo pubblicato su La Repubblica il 5 aprile 1994 con titolo Ilaria e Miran uccisi dalla malavita somala, sebbene nessun riscontro fosse stato trovato a supporto. Nell'opposizione parlamentare ci si soffermò, invece, su alcune anomalie del modo di procedere della Commissione d'inchiesta, che potrebbero averne falsato le risultanze. Quella che nella XIV legislatura da uno dei suoi componenti (l'onorevole Enzo Fragalà) fu definita “l'unica Commissione parlamentare della storia della Repubblica che svolge sul serio l'attività di inchiesta (le altre hanno sempre fatto salotto)”, nel suo regolamento interno, il 3 marzo 2005 introdusse un articolo 10-bis riguardante le deliberazioni incidenti sulle libertà costituzionalmente garantite. Ciò fu presentato dal Presidente, Taormina, come la risposta ad un quesito posto da tempo in importanti scritti di costituzionalisti: quello di assicurare che la ricerca di un'azione investigativa fosse condivisa da tutte le forze politiche. In realtà, la ricchissima disamina della materia dell'articolo 82 della Costituzione riscontra un'esigenza di utilizzazione dello strumento numerico essenzialmente ad altro fine (quello dei maggiori o minori quorum da raggiungere per istituire una Commissione di inchiesta). Poco o nulla si rinviene, invece, sulla questione delle deliberazioni della Commissione d'inchiesta, che in tempi di consensualismo antico decidevano all'unanimità le modalità di esercizio dei loro poteri istruttori. Nella relazione conclusiva della Commissione di cui era presidente, Taormina sostenne che la norma regolamentare in questione opera “da un punto di vista dei rapporti con i terzi, il rafforzamento delle garanzie del cittadino attinto da un provvedimento, il quale sarà posto in essere solo in quanto risultato positivo al giudizio di legittimità, di merito nonché di opportunità politica effettuato da tutti i membri dell'organismo parlamentare presenti in seduta”. Ma l'unica, vera garanzia è l'esistenza di un organo terzo cui affidare il controllo, in ordine alla riconducibilità della fattispecie al parametro di riferimento offerto dalla Costituzione. Nella successiva legislatura una norma che seguiva la medesima struttura e finalità - anche se prevedeva non l'unanimità dei presenti ma la maggioranza dei due terzi dei componenti - fu proposta all'interno della legge istitutiva di una Commissione di inchiesta, quella antimafia. Infine, il presidente Taormina sosteneva che “la brutalità dei numeri è certamente qualcosa che cozza con l'esigenza dell'accertamento dei fatti”. In data 11 febbraio 2008 la Corte Costituzionale, adita in sede di conflitto di attribuzione, stabilì che: « [...]non spettava alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin adottare la nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV), con la quale è stato opposto il rifiuto alla richiesta, avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sull'autovettura corpo di reato, e annulla, per l'effetto, tale atto». Nel gennaio 2011 la Commissione parlamentare annuncia la riapertura delle indagini sul caso. Il 5 settembre 2012, come già su un articolo de l'Unità del 7 febbraio 2006, Carlo Taormina ha dichiarato: «Ilaria Alpi è morta a causa di una rapina. Era in vacanza non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un'altra storia». Appare sempre più chiaro che attorno alla strada Garoe-Bosaso, un nastro d’asfalto lungo più di 450 chilometri, sia accaduto di tutto: tangenti, sperperi, "malacooperazione". E probabilmente anche smaltimento di rifiuti tossico-nocivi. La strada che collega Garoe con Bosaso e il suo porto, nel Nord-est della Somalia, torna e ritorna sempre al centro dell’attenzione. Nell'estate 2005, l’Associazione Ilaria Alpi, insieme con Famiglia Cristiana, l’onorevole Mauro Bulgarelli e l’inviato speciale della Somalia presso l’Unione europea, Yusuf Mohamed Ismail, avevano effettuato una spedizione in Somalia, pubblicando poi i risultati ottenuti: due camionisti somali avevano raccontato di aver scaricato in alcune fosse dell’area intorno a Gardo (lungo la strada) grossi quantitativi di fusti contenenti, secondo quanto hanno detto, "vernici scadute". E il magnetometro aveva confermato la presenza nel sottosuolo di metallo. L'intervista di Ilaria al sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor, meglio conosciuto come il sultano di Bosaso, è uno dei testimoni chiave dell’indagine sulla morte di Ilaria Alpi. Personaggio controverso, è stato intervistato dalla giornalista pochi giorni prima della sua morte, intervista durata probabilmente più di 2 ore ma di cui sono arrivati a noi solo una decina di minuti: nei cinque minuti finali del colloquio registrato, si accenna al sequestro di una delle navi della flotta Schifco, il cui amministratore è Mugne, somalo con passaporto italiano, coinvolto in un giro d’affari poco chiaro. Il ruolo cruciale di Bogor riguarda il complesso delle ambigue dichiarazioni rilasciate dopo la morte di Ilaria Alpi sul contenuto dell’intervista. Il sultano si contraddice e cambia numerose volte la versione dei fatti, dimostrando di essere un teste poco attendibile ma probabilmente bene informato su alcune circostanze dell’omicidio Alpi-Hrovatin. Ilaria Alpi morì in Somalia indagando su traffici di rifiuti pericolosi e armi. Nei suoi ultimi giorni di vita tentò di individuare alcune delle navi coinvolte in questi flussi illegali che come si ipotizzò successivamente avrebbero visti coinvolti anche uomini del Sismi, il servizio di intelligence italiano. Nel marzo 1994 Ilaria Alpi telefonò al suo collega Flavio Fusi parlando di «roba che scotta, cose importanti» che non poteva nominare al telefono «per motivi di sicurezza». Pochi giorni dopo quella conversazione, il 20 marzo ‘94, Ilaria Alpi ed il suo operatore Miran Hrovatin furono uccisi a Mogadiscio da un commando armato. I due giornalisti che accorsero inutilmente in loro soccorso e ripresero la scena del delitto furono trovati morti tempo dopo in strane circostanze. Proprio per quel 20 marzo Ilaria aveva previsto di inviare in Italia il primo servizio sui fatti da lei scoperti. La Shifco, Mugne e gli appalti italiani. Proprietaria di quelle navi su cui stava indagando Ilaria Alpi era la Shifco (Somali High Seas Fishing Company), una compagnia somala di pesca che gestiva all’epoca sei navi. Amministratore delegato della società era Omar Said Mugne, un ingegnere italo-somalo laureatosi nella Bologna rossa degli anni ‘70 e all’epoca uomo di punta dell’Enfais, l’ente somalo di programmazione che curava i rapporti con le agenzie di cooperazione estere, Fai (Fondo Aiuti Italiano) compreso. Di lui Adriano Botta scrisse sull’Europeo: «Quando non utilizza jet privati, viaggia (ovviamente in prima classe) sui voli fra Roma e Mogadiscio con una frequenza impressionante». In Italia Mugne era a libro paga della cooperativa bolognese Edilter che all’epoca prendeva grossi appalti in Italia e Somalia grazie anche a buoni rapporti con vari partiti politici. Ma non è tutto: Mugne conosceva e ha lavorato insieme con Giancarlo Marocchino, un italiano che aveva ottenuto alcuni appalti dalla Edilter e che fu tra i primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio della Alpi e di Hrovatin dove fu filmato da ed intervistato da due giornalisti oggi non più tra noi (uno di questi è morto in circostanze non chiare). Bizzarro il fatto che autista e scorta al momento dell’agguato del 20 marzo ‘94, si allontanarono indisturbati, attualmente anche loro oggi non sono più tra noi. Mugne e Marrocchino avevano lavorato per la Saces, il consorzio – di cui Edilter faceva parte assieme a Astaldi e Cogefar- incaricato dalla cooperazione italiana di numerosi lavori nella Somalia del nord. La trama è chiaramente complessa ma l’intreccio affaristico altrettanto evidente. Mugne, in perfetto conflitto di interessi, trattava con la cooperazione italiana per ottenere aiuti sotto forma di denaro e grandi opere pubbliche la cui realizzazione veniva assegnata a Saces o direttamente alla “sua” bolognese Edilter. Ma probabilmente a Mugne o, a chi lo utilizzava, questo non bastava – o non poteva bastare – e le navi donategli dagli italiani dovevano essere utilizzarle per traffici più remunerativi e utili della pesca in alto mare. Fino a quel momento la cooperazione con l’Italia aveva fruttato alla Somalia ben 1.400 miliardi (decennio 1981-1991) di cui l’80% destinato a progetti “fisici”, grandi infrastrutture tra cui la strada asfaltata Garoe-Bosaso. 605 milioni di lire a km in un territorio spopolato, desertico e totalmente pianeggiante. Una cifra folle anche per l’Italia. Vincitore dell’appalto ovviamente fu Mugne col suo Saces. Di quel sistema la procura e la commissione parlamentare parlarono come di giro di corruzione che riusciva a muovere tangenti fino al 35-50 per cento fatturato delle aziende coinvolte. La Shifco nacque nel 1983 come joint-venture di pesca industriale tra l’Italia e la Somalia. Della Shifco la commissione d’indagine del Senato ebbe a dire: «Iniziato [il progetto di pesca oceanica] nel 1979 è passato attraverso vari disastri e insuccessi clamorosi, con i 5 pescherecci e la nave frigorifero. Era previsto un grosso impianto a Brava (la cittadina ove era nato l’ing. Mugne), fu avviato, ma non finito. […] Pesa il sospetto che l’intera iniziativa sia servita soprattutto ad arricchire – senza che ciò comporti necessariamente valutazioni di illiceità – gruppi di privati tanto italiani, quanto somali». La Shifco, come risulta da una curiosa interrogazione (protocollata col codice P-2391/00) che l’allora europarlamentare Antonio Di Pietro fece alla Commissione europea, richiese nel 2008 l’autorizzazione all’esportazione di pesce negli stati Cee. Apprendiamo dall’interrogazione che con solo 5 navi la Shifco “riusciva”, secondo il fondatore dell’Italia dei Valori, a dare lavoro a 500 marinai italiani e 2000 lavoratori somali. Mugne chiese l’autorizzazione alla Ue e la ottenne solo dopo le rassicurazioni di Francesco Sciortino, l’allora ambasciatore italiano in Somalia. Il 27 luglio 1998 Sciortino scrisse alla commissione di 700 famiglie ridotte sul lastrico in caso di diniego dell’autorizzazione all’esportazione in Europa. Il commissario incaricato della questione, Emma Bonino, si fidò così come prese per buona la smentita di Sciortino – “solo voci” – circa le allora già ben note accuse di traffico d’armi rivolte all’amministratore della Shifco. Le voci infatti erano ben tre: la prima datata 1993 quando il Sisde avvisò dell’arrivo a Livorno di una nave Shifco carica di armi e la seconda dell’anno successivo. Ecco cosa scriveva la polizia: «Il capitano della nave si identificherebbe in tale Mugne che avrebbe acquistato armi in Jugoslavia vendendole in Somalia e facendo ritorno in Italia con carichi di pesce». Il Sismi infine redasse un’informativa secondo la quale Mugne sarebbe stato «dedito a traffici di qualsiasi genere tra l’Europa e il Corno d’Africa, nonché sospettato di aver trasportato in Somalia una consistente partita di armi (costituita da artiglieria leggera e semovente, fucili Kalashnikov e altro), acquistata a Kiev». Dopo tutto se Mugne non era né santo né poeta poteva sempre essere quanto meno pescatore e così, dopo una serie di controlli tecnici effettuati ad Aden (Yemen) l’autorizzazione, alla faccia di tutte le male lingue, arrivò regolarmente e le 700 famiglie, i 2000 somali e i 500 marinai italiani non morirono di fame. Le navi frigorifere non erano sempre state di proprietà Shifco, in origine erano state della stessa Repubblica Somala finché Ali Mahdi, il presidente che prese il potere dopo la caduta di Siad Barre, non decise di darle a tale Farah Munyah – ma il Sismi parlò di sequestro ordinato da Mugne – in cambio di 500mila dollari. Prima ancora le imbarcazioni erano state italiane finché non furono donate dal Dipartimento per la Cooperazione e lo Sviluppo del Ministero degli Esteri alla stessa Somalia. La flotta Shifco però cambiò immediatamente funzione e così come ufficialmente caricava le sue navi di pesce surgelato iniziò ugualmente a riempirle di centinaia di fucili mitragliatori e relative munizioni. Lo dice il rapporto S/2003/223 del Consiglio di Sicurezza Onu datato 25 marzo 2003. Il 14 giugno 1992, specifica il rapporto, una nave Shifco caricò dalla M.V. Nadia circa 300 fucili d’assalto Ak-47 dell’Est Europa e 250mila proiettili di piccolo calibro. Il carico fu poi sbarcato ad Adale, in Somalia. Complice di Mugne e regista dell’intera operazione fu il “principe di Marbella” Monzer al-Kassar, trafficante internazionale di armi che riuscì a violare sistematicamente l’embargo Onu sulla Somalia a partire dal gennaio 1992. La storia della Shifco è complessa. Come spiegato nel 2000 dal senatore Russo Spena, tutto nacque da un contratto stipulato tra Sec di Viareggio e governo somalo nel 1979, con un credito finanziario di 18,638 miliardi di lire più successivi 5,74. Le prime tre navi furono, appena consegnate, subito girate dalla Repubblica Somala alla Cooperpesca dei fratelli Macinelli (uno dei quali dipendente di Renzo Pozzo, l’amministratore della Sec) per 350mila dollari ma nonostante la gestione italiana ci furono “incomprensioni mai chiarite” e le imbarcazioni furono fermate in zona equatoriale dove rimasero a marcire fino al 1985. Mugne e Pozzo non erano fatti l’uno per l’altro e litigarono finché il secondo non risolse ogni problema parlando con l’allora presidente Siad Barre che «fece intendere al Pozzo che se la Sec voleva continuare a lavorare con la Somalia doveva uscirsene dalla società di gestione … alla Sec interessava costruire per conto del Governo italiano altre tre navi di cui già si parlava come da destinare alla Somalia in dono». Tutto risolto ma non erano solo i rapporti tra soci a deteriorarsi. Anche le navi stavano andando a pezzi al punto che Sec, su impulso dell’appena creato FAI (Fondo Aiuti Italiano), decise di rimetterle in sesto aggiungendo le altre tre previste. E’ il 1986 ed il “credito finanziario” si trasforma in “dono”. Le sei navi vengono affidate alla Somitfish (Shifco + Cooperpesca che controllava le prime tre) di Mugne. Passano due anni e a Mogadiscio viene in mente di rilevare tutte le azioni di Somitfish. Ovviamente senza pagare un soldo. La soluzioni la trova Renzo Pozzo di Sec: «Ovviamente dalla Somalia non si vuole far uscire 350.00 dollari. Per superare questo punto occorre che le azioni abbiano un valore zero. Per fare questo è sufficiente che Somitfish abbatta il suo capitale sociale con, le perdite accumulate fino ad oggi. Esibendo in Italia il documento che certifica questa operazione la Banca d’Italia restituirà, su nostra disposizione, le azioni senza pretendere null’altro». Somitfish è liquidata e Mugne, responsabile com’è del “Progetto Pesca”, riprende il controllo su mandato dell’Enfais di tutte le azioni di Pozzo. Dopo pochi mesi la nuova Shifco Malit accumula già una perdita di 2 miliardi di lire. Sec interviene ancora, ripiana il buco, prende a gestione i pescherecci, restituisce la gestione alla Shifco Malit che va in liquidazione e passa le navi alla Shifco di Mugne. Ed il cerchio si chiude. L’entrata della Panati servirà per ripianare le ulteriori e continue perdite la cui responsabilità Mugne respinse poi in toto perché “io non ho mai ricoperto alcuna carica nell’ambito della Somitfish” Attualmente conosciamo con precisione i nomi delle navi Shifco grazie anche ad un rapporto dell’ufficio cibo e veterinaria dell’Unione Europea che le visitò ad Aden (Yemen) il 18 novembre 1998. Il documento spiega che le sei navi furono costruite a Viareggio, le prime tre nel biennio 1981-82 e due nel 1990 e che tutte prevedevano una ciurma di 40 persone (la stima di 400 marinai fatta da Antonio Di Pietro appare quindi difficilmente giustificabile) e un carico massimo di 20 tonnellate di pesce surgelato. Il “pesce”, ci dice l’ufficio europeo, sarebbe stato pescato in Somalia, trasportato ad Aden e poi consegnato in Italia dove poi avrebbe preso la rotta dell’Arabia Saudita e della Giordania. E’ possibile rintracciare le navi in maniera univoca grazie al codice Imo, un identificativo internazionale permanente che rimane invariato al cambio di nome e bandiera di una nave. Il database online della Imo (International Maritime Organization) non contiene però i numeri assegnati alla flotta Shifco ad eccezione di uno. Se ne dovrebbe dedurre che le navi non sono più in circolazione. O meglio non dovrebbero più esserlo. In realtà molti database online sono incompleti e datati ed altri riportano dati spesso incorretti o fuorvianti. L’Imo delle navi Shifco è stato recuperato recuperarlo grazie ai dati della Intenational Association of Classification Societies, una società che si occupa di monitorare lo stato e le caratteristiche tecniche di più del 90% del naviglio mondiale. Nella banca dati della Iacs sono riportati tutti gli “overdue surveys” – una sorta di tagliando di controllo non più prorogabile – e le altre cause che hanno determinato il ritorno in cantiere di un’imbarcazione per essere revisionata. La nave Urgull è stata fotografata (foto disponibili via Shipspotting.com) nel settembre 2005 a San Sebastián sulla costa basca spagnola al confine con la Francia. Dal 30 maggio 2007 al 14 luglio 2008 le foto ne documentano la presenza a Vigo. Il 4 febbraio 2009 è a Las Palmas nelle Canarie, il 22 febbraio 2009 ritorna sui propri passi superando Vigo e fermandosi poco più a nord nel porto di Caramiñal. Dal 5 luglio Urgull è fotografato sempre nelle vicinanze di Vigo, a Chapela e a Ria de Vigo. In effetti il Word Shipping Register conferma che l’Urgull è gestito dalla compagnia Urgora con sede in Honduras ma uffici proprio a Vigo. Dopo quasi 20 anni e con l’eccezione di Urgull (ex 21 Oktoobar II) non sembra più possibile rintracciare con precisione le navi della Shifco che però esistono ancora e sono di proprietà di due compagnie: la Fishing Indian Ocean Catching e la Fishering Indian Ocean Catching. Considerando che l’80% delle navi batte attualmente bandiera del Belize, Honduras, Panama o Saint Vincent & Grenadines la nazione di registrazione non pare così importante. E’ importante invece sapere che la sede della Fishering, sempre secondo il Word Shipping Register, è situata a Mazza e Cozzile in provincia di Pistoia e cioè presso la sede della Panafin, per alcuni anni Sopal, la holding alimentare della partecipata statale Efim. La Panafin o PanafinPesce è tutt’ora di proprietà di Vito Panati, il manager che fu accusato da un suo dipendente di essere a conoscenza del traffico di armi organizzato da Munge. Panati ha però sempre negato come ha sempre negato di conoscere con precisione la movimentazione e le rotte delle sue navi.